Si potrebbe dire che lo inseguivo da due anni. Da quando ho saputo di dover venire a vivere all’Elba e ho recuperato, in un cassetto della memoria, quell’informazione: i dieci mesi trascorsi da Napoleone all’isola d’Elba. Mi dicevo: abiterò dove ha vissuto il Grande Esule. Forse senza saperlo, in qualche momento, ricalcherò una delle sue orme, il mio piede si poserà, quasi esattamente, dove si è posato uno di quei piedi che dovevano essere, vista la ridotta statura dell’imperatore, non molto più grandi dei miei.
E da allora questo pensiero mi ha accompagnato sempre: in certi pomeriggi assolati sulla piazza d’armi della De Laugier; nelle passeggiate sulla nostra splendida darsena; nei boschi in cui Napoleone cavalcava inquieto; sulle spiagge dove inseguivo i giochi di mia figlia.
Non paga di queste fantasmatiche coincidenze, di queste sovrapposizioni fortuite, ho cominciato, proprio, a cercarlo, coltivando una mia piccola, personale ossessione. Così, ho iniziato a leggere i suoi scritti, e i libri su di lui. Ma soprattutto ho raggiunto i luoghi fisici in cui potevo essere certa avesse trascorso alcuni giorni, alcune ore. Per vederli, per viverli. Attraverso le pareti, le luci, i rumori. Attraverso gli oggetti, pochi, che gli sono certamente appartenuti: la brandina da campo conservata alla palazzina dei Mulini, che avrei voluto accarezzare per strappare, a quei freddi tubi metallici, il fremito dei viaggi, delle avventure, delle battaglie. Il baldacchino del suo letto, andato poi ad ornare un paramento sacro di una confraternita locale. Le sue dimore – gli arredi no, sperduti e sostituiti da altri, d’epoca ma non originali – le pitture delicate del Revelli, sulle quali tante volte deve aver posato gli occhi.
Ma, soprattutto, i panorami: quello vasto, silvestre, di San Martino; quello marino, strategico, dei Mulini.
Visitando le case in cui ha soggiornato, ho quasi provato sulla mia pelle il senso di soffocamento che dovevano dargli quegli spazi ridotti, le dimensioni domestiche degli appartamenti, paragonate ai fasti dei suoi palazzi passati. E insieme a lui mi sono sentita allargare il petto, e finalmente respirare, volgendo lo sguardo all’esterno: sulle vedute, sul verde dei giardini, sul blu del cielo e del mare.
Alle mie spalle l’oscurità lieve di quei palazzi, dimore inadatte, davanti agli occhi la luce abbacinante delle mattine elbane.
La bellezza dell’Elba – sola ricchezza largamente disponibile sull’isola – deve essergli stata, mi è capitato di pensare, di consolazione.
Deve essere stata la sola cosa, grande e forte al pari di lui, che abbia trovato nel suo nuovo regno: la trasparenza surreale dei fondali, la magnificenza dei lecci frondosi e centenari, la violenza delle tempeste marine.
Io che, nella mia piccolezza, all’Elba sperimento il limite fisico e geografico, il confine nella sua modalità più ineluttabile – quello che io chiamo il “bordo”, un’evidenza che ti delimita da ogni lato – penso a come doveva sentircisi lui, che aveva negli occhi le steppe sterminate di Russia, o le distese azzurre dell’alto mare. Lui che – pur capace di efferatezze innominabili, che non devono essere rimosse dalla memoria storica a beneficio di operazioni commemorative puramente commerciali – a sedici anni era luogotenente, a ventiquattro era generale. Il più grande stratega militare della storia, il creatore di un Codice che ha influenzato tutti i sistemi giuridici europei, compreso quello italiano. Colui che ha dato alla Francia una nuova organizzazione amministrativa, che ovunque ha rinforzato reti viarie e fognarie. Uomo di cultura straordinaria, infaticabile scrittore di lettere, e accumulatore di libri su ogni argomento. L’uomo che trasformò una sconfitta militare – quella della campagna d’Egitto – in una straordinaria vittoria culturale, volendo duecento sapienti al seguito della spedizione, riportando la Stele di Rosetta, dando vita all’egittologia stessa, e alla diffusione di questa moda in tutte le manifestazioni della cultura.
Un uomo che, come diceva Manzoni, “bisognava ammirare senza poterlo amare”, e che ho inseguito per tutto il giorno, il 4 maggio, nel corso della rievocazione dello sbarco. Nella mia prima “missione” da blogger per conto de Il genio del bosco, incurante della finzione messa in scena dai figuranti, ho cercato in ogni modo di avvicinarlo, di guardarlo in faccia, di fotografarlo. Inutilmente. Il mio occhio, il mio obiettivo, hanno colto tanti particolari – damine e armigeri e folle festanti – ma non hanno potuto catturare nemmeno un fotogramma del suo volto. Confermandomi nell’idea che certi grandi – anche se “grandi nel male”, come li definiva Manzoni – non possono essere intrappolati da un’idea o assoggettati a un desiderio.
In mattine come queste l’Elba, illuminata da un limpido sole, sembra coincidere con la mia personale idea di perfezione: e mi capita di pensare che, se avesse atteso l’arrivo di un’altra primavera, forse anche Napoleone avrebbe trovato, in tutto questo splendore, un motivo per non andarsene più.